venerdì 28 novembre 2008

SI CHIUDE BOTTEGA

CON LA PUBBLICAZIONE DELL’INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIORGIO NAPOLITANO A GERUSALEMME CHIUDE IL BLOG DI “INCONTRIAMOCINELPARTITODEMOCRATICO”.

Nel suo discorso di ieri all’Università Ebraica di Gerusalemme, in occasione del conferimento della laurea Honoris Causa da parte di quella che è uno dei più importanti atenei del mondo, il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano ha pronunciato parole amare e dure sul decadimento della politica “faziosa e miope” che caratterizza, purtroppo, negativamente, il nostro tempo.
L’autorevolezza della carica istituzionale da cui tali giudizi provengono, la storia e il prestigio personali del Presidente, la circostanza ufficiale, fanno di questo discorso un caposaldo di una vasta riflessione e di un vasto dibattito aperto da qualche anno sulla crisi della politica in Italia ed in Europa (sugli Stati Uniti di Barack Obama va fatto un discorso a parte, molto legato alla vicenda politica, alle istituzioni e alla storia recente di quella grande democrazia).
Insidiata dalla crescita del potere economico, la politica è sempre più subordinata, su scala globale, nazionale o locale, alla sfera economica e non di rado intrecciata in modo devastante col mondo degli affari e degli interessi privati.
Mentre tutto si regola su scala globale: l’economia, la finanza, il commercio, la gestione delle risorse fondamentali, prima fra tutte l’energia, come anche la comunicazione e l’informazione, la politica rimane asfitticamente chiusa dentro la dimensione nazionale e dentro istituzioni ottocentesche.
La democrazia, la più grande conquista politica degli ultimi secoli, è spesso ridotta a rituale privo di contenuti di reale partecipazione e di vera cittadinanza.
Il confronto politico avviene su coordinate sempre più povere culturalmente e spesso scivola nella superficialità, nella rozzezza, nell’incompetenza, quando non nell’ignoranza.
L’approfondimento di merito dei grandi problemi che l’inizio del XXI secolo propone, il rapporto tra uguaglianza e diversità, il confronto tra culture e religioni, il rinnovamento del welfare, i problemi etici posti dallo sviluppo delle scienze biologiche, la formazione e la libertà, la tutela dell’ambiente, ecc. è evitato con il ricorso ad una faziosità che delegittima tutto ciò che avviene in campo avversario e chiude il dibattito all’interno del proprio campo, riesumando antichi richiami al patriottismo di partito e alla fedeltà al capo di turno.
La selezione delle classi dirigenti, tradizionalmente compito della dialettica politica, è affidata alla cooptazione e all’opportunismo, ammantate di un giovanilismo di facciata, riedizione di quel gattopardismo italico, per il quale è necessario, ciclicamente, che “tutto cambi perché nulla cambi”.
Investite in pari misura da questi fenomeni, destra e sinistra reagiscono però molto diversamente. Mentre la destra, in quasi tutti i paesi d’Europa, dall’Italia alla Scandinavia, dalla Francia alla Polonia, ecc. trova più facilmente forme di convivenza con queste tendenze negative, con la mediazione di un populismo di nuovo tipo, di un nazionalismo compassionevole, di un leaderismo mediatico, la sinistra sbanda, a volte scimmiottando il leaderismo televisivo della destra, altre volte rincorrendola con eccesso di zelo mercantilista, oppure moltiplicando personalismi e divisioni.
Negli ultimi due-tre anni abbiamo dedicato grandi energie a cercare di costruire un cambiamento di orizzonte di una vasta area di centro sinistra, potenzialmente maggioritaria in Italia come in Europa. In sintonia con processi e idee molto ampi e diffusi in Europa, nel nostro piccolissimo perimetro abbiamo promosso iniziative pubbliche, alimentato un dibattito e cercato di far circolare idee attraverso il Blog, abbiamo contribuito ai percorsi congressuali attraverso i quali i due partiti dei Ds e della Margherita hanno fondato il Partito Democratico. Abbiamo cercato di mantenere aperti canali di comunicazione tra l’area del Pd e altre aree politiche della sinistra. Abbiamo partecipato con entusiasmo a quella mobilitazione e a quel risveglio che, in occasione della nascita del PD, ha visto milioni di cittadini manifestare interesse e partecipazione politica.
Oggi dobbiamo prendere atto, e le parole del Presidente della Repubblica non possono non essere un autorevole sigillo in tal senso, che il risultato di questi sforzi è molto modesto e molto debole. I segnali di questo esito sono così numerosi, che non c’è bisogno di citarli, anche perché il Blog ne ha spesso dato conto. Va aggiunto che, a livello locale, non sono mancati anche segnali di chiusura e di delegittimazione strisciante, attraverso l’insinuazione e l’allusione polemica, verso il ruolo delle libere associazioni politiche come Incontriamoci, prova di un clima sempre meno aperto al confronto politico.
Non vogliamo certo gettare la spugna o arrenderci. Le persone che abbiamo incontrato in questo recente cammino, la crescente voglia di democrazia e trasparenza, la fiducia che meritano coloro che sono impegnati in prima linea in questa battaglia, giustificano un saldo ottimismo, nonostante tutto.
Continueremo, quindi nell’impegno per il rinnovamento della politica e della democrazia.
Tuttavia i tempi, i modi, le incertezze della sfida che abbiamo di fronte, rendono non più adatti strumenti e forme pensati ed attivati in una fase precedente, ormai chiusa.
Con la pubblicazione dell’intervento del Presidente Napolitano chiude quindi il nostro Blog, anche se la sua motivazione di fondo resta attuale. Per tutti coloro che lo hanno frequentato in questi due anni e mezzo, questo è pertanto solo un caldo arrivederci.


Claudio Frontera Daniela Miele


Livorno, 28/11)08

Un grazie di cuore

Un ringraziamento particolare a Paolo per la collaborazione e il supporto tecnico che non ci ha mai fatto mancare. Alla prossima!!!

Daniela e Claudio

l'accusa di Napolitano:«Miopia e debolezza delle classi dirigenti POLITICA FAZIOSA».

http://www.quirinale.it/

Da Lectio Magistralis del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Gerusalemme

Dichiarazione di Giorgio NAPOLITANO

«Miopia e debolezza, in troppi casi, da parte delle classi dirigenti».
(27 novembre 2008) -
Il Capo dello Stato a Gerusalemme: i palestinesi devono riconoscere israele«Debolezza, in troppi casi, da parte delle classi dirigenti e delle leadership politiche nazionali».
GERUSALEMME - Di fronte alla crisi finanziaria e ad altri processi che «su scala mondiale tendono a sfuggire a ogni controllo», Giorgio Napolitano vede «miopia e debolezza, in troppi casi, da parte delle classi dirigenti e delle leadership politiche nazionali». Lo ha detto nella lectio magistralis pronunciata all'Università Ebraica di Gerusalemme che gli ha conferito una laurea honoris causa in filosofia.. Bisogna invece «mettere l'accento contro le chiusure e i protezionismi nazionali», ha aggiunto.
POLITICA FAZIOSA - «Dimenticando la lezione della storia si dà un clamoroso esempio di immiserimento della politica, riducendola a strumentalismo, spogliandola di ogni dimensione storico-culturale. Vedo in questo, in generale, una delle attuali malattie della politica, una delle cause del suo decadimento», ha aggiunto il presidente della Repubblica illustrando la sua convinzione che «l'ideale e il progetto sionistico», pur collocandosi nell'era dei nazionalismi, si distinsero e presero le distanze «da approcci aggressivi e ambizioni di potenza». In questo senso, ha concluso, «due anni fa denunciai chi non avendo il coraggio di dichiararsi antisemita assume come bersaglio il sionismo identificando con esso una presunta volontà di dominio».
PALESTINESI E ISRAELE -  «Non si deve mai scivolare sul terreno della delegittimazione di Israele», ha proseguito poi Napolitano che ha espresso «preoccupazione» e considerazione per la «dura condizione della gente di Gaza» ma aggiungendo che ciò «non può mai mettere in ombra» per nessun palestinese e arabo «il problema del pieno inequivoco, coerente riconoscimento dello stato di Israele, della sua legittimità, del suo diritto all'esistenza e alla sicurezza
Fonte: Corriere della Sera.it vai alla pagina

lunedì 24 novembre 2008

Se in Italia i giovani leoni non hanno i denti ......

L´inchiesta di Repubblica sull´Italia da sbloccare, partita l´11 novembre, ospita, oggi, l'intervento di Giuseppe D'Avanzo, di cui riporto un brano. D'Avanzo propone un'interessante analisi dell'anagrafe della politica italiana, comparando i dati tra i partiti italiani, i partiti europei e gli USA.
Risulta che il Paese è bloccato, ma l´analisi dell´anagrafe rivela un´altra verità. A partire dalla politica e dall´economia c'è una sorpresa : in Italia il potere è GIOVANE (o quasi)!
In Parlamento e nelle grandi società, l´Italia non è più un paese per vecchi A sorpresa tiene testa agli Stati Uniti e continua nel processo di rinnovamento. La Lega per prima ha puntato sulle nuove leve. Ma le università fanno eccezione
"Le rogne di un ricambio generazionale sono tutte del Pd
Il gruppo più giovane della legislatura è del Carroccio: solo 40 anni in media
Il premier italiano è tra i più anziani d´Europa: 72 anni contro i 48 di Zapatero
Semmai i problemi sono tutti nella gerontocratica università italiana. Tra gli oltre 18mila cattedratici, solo 9 hanno meno di 35 anni e tre su dieci ne hanno più di 65, hanno contato Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Epperò lo svecchiamento degli ultimi anni con il proliferare di corsi di laurea e di sedi universitarie, con l´aumento del 100 per cento dei professori ordinari (ma alcuni parlano del 150 per cento) non ha migliorato la qualità né della ricerca né dell´insegnamento. Non basta essere giovani per cambiare in meglio l´esistente. Di sicuro non nell´università italiana.A ben guardare, la politica se la passa meglio. Sei governatori hanno meno di 50 anni e l´età media è di 53 anni. Alla Camera l´età media degli eletti è di 50 anni e al Senato di 54 (senza i senatori a vita): una spanna meglio del Congresso americano dove, ricorda Leonardi, dal 1996 l´età media degli eletti è di 51 anni e al Senato di 58. In questo orizzonte, si dimentica sempre (colpevolmente, ottusamente) la rivoluzione della Lega. Il più "antico" partito del Parlamento italiano è la forza politica che, nell´ultimo decennio, ha governato un quarto del Paese creando, come ha osservato Andrea Romano, una classe dirigente «giovane e competente». Il 77 per cento degli eletti in Parlamento del Carroccio ha un´età che oscilla tra i 29 e i 49 anni (fonte, la voce.info) e la gran parte dei duecento sindaci leghisti sono quarantenni. I casi di Federico Bricolo (41 anni), già eletto nel 2001 (a 34), o dell´ex assessore del Veneto Francesca Martini (46 anni, già eletta alla Camera nel 2001 a 39) o di Matteo Bragantini (32) non sono eccezioni nel gruppo parlamentare più giovane della legislatura, età media 44 anni. È una classe dirigente cresciuta all´ombra della vecchia guardia padana, secessionista e folklorica, ma oggi pragmatica custode delle attese e le ambizioni di un elettorato che conosce come la sua famiglia e di un territorio che abita come la propria casa. È un´élite consapevole che debba essere la Lega «il motore riformatore del governo».
Silvio Berlusconi, si sa, non ha bisogno di una classe dirigente. Basta a se stesso. Come ha scritto Alberto Asor Rosa su questo giornale, il nostro carismatico premier «è un grande distruttore di élite: dove lui passa, non c´è straccio di classe dirigente che resista». Si sente Napoleone III o forse - meglio - Luigi XIV. Per governare gli è sufficiente un Richelieu (Gianni Letta, 73 anni), un Colbert (Tremonti) e, per antica abitudine, un avvocato (Niccolò Ghedini, 49). Per il resto, il sovrano si circonda di cortigiani sorridenti, fantaccini ostinati, belle e giovani signore e di un corteo di «vogatori, cruciferi, flabellieri, turiferari, toreadori», intercambiabili e ininfluenti come un Daniele Capezzone (36 anni). Da questo punto di vista, le rogne di un ricambio generazionale sono tutte allora del Partito Democratico, partito nuovo che si lascia alla spalle il suo solo leader vincente (Romano Prodi, 69 anni). Il PD, attor giovane del sistema politico italiano, dovrebbe essere più sensibile a liberarsi dell´autarchia generazionale e, a parole, è così.Altri sono i fatti. Tra gli eletti del Pd gli under 40 (dunque, i giovani autentici) sono appena il 13 per cento e, se si allarga la forbice ai 49 anni, si arriva soltanto al 43 per cento (34 per cento in meno rispetto alla Lega, il partito - ripeto - più «antico»). Un risultato assai modesto, anche se il PD è riuscito ad abbassare in questa legislatura la media dei suoi eletti da 54 a 49 anni, un anno in meno del Partito della Libertà (50). Se poi si guarda ai criteri di selezione o alla qualità di questa presenza giovanile, la luna diventa nera. Al contrario dei volti nuovi della Lega, non si scorge nessun radicamento nel territorio, nessun legame con la società. Paiono decisive cooptazione, fedeltà senza discussione, buona presenza mediatica.L´avventura politica di Marianna Madia ne è il prototipo più esplicito. Ventotto anni, scelta addirittura come capolista a Roma, presentata come «economista» tra le perplessità degli economisti, avventurosamente si presentò così: «Metto al servizio del Paese la mia incompetenza». Merito, competizione e senso di responsabilità non orientano i comportamenti e le scelte di chi governa il Partito Democratico né sollecitano quei giovani che chiedono di governarlo o almeno di contare di più, di avere più spazio e potere. Chi, con la giovane età, una competenza può vantarla come Irene Tinagli (34 anni, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh) se ne va già disillusa («Ero stata contattata per le mie competenze tecniche, in un anno di PD non sono stata consultata nemmeno per un parere»). Nella convinzione che l´azione politica si svolga tutta all´interno dello spazio mediale, ha nel PD più visibilità un demi-monde mediatico, blogger come Luca Sofri (44 anni), Diego Bianchi (38), Mario Adinolfi (37). Competenze? Pochine. Luca Sofri lo ha ammesso con onestà durante i lavori di una direzione (è tra le venti personalità indicate da Walter Veltroni). Sofri disse a brutto muso: «Sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente» per poi concludere: «. Non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti e non sarei all´altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate».Chapeau!Ho l´impressione che, in assenza di competenze, i giovani che vogliono fare del PD, come scrivono nel loro blog (Uccidere il padre), «un partito moderno, democratico, laico e di sinistra» (e capirai che puntuta e illuminante freschezza), chiedono soltanto di togliersi dai margini, di farsi benedire e riconoscere sventolando appartenenza. È l´accorta pulsione, temo, che può spiegare la rimozione in quel partito di ogni conflitto politico per mano dei più giovani.È il quarto e ultimo argomento: se si guardano i numeri, la politica italiana non è priva di giovani. Anzi, è giovane. Il suo deficit è un altro.Se si guarda al PD, è ossessionata dall´obbedienza, disinteressata alle competenze spendibili liberamente. È dominata dalla prudente ragione del primum vivere che orienta da sempre i maturi di ogni partito e ora anche gli acerbi dell´ultimo partito nato. E´ una politica che non conosce il conflitto.Il conflitto vero sulle questioni reali (non le cerimonie mediatiche) è, al contrario, sempre salutare e necessario se un corpo sociale, qualche che sia, non vuole sclerotizzarsi e conservare vitalità e dinamismo. E´ il conflitto il grande assente nel parolaio del discorso politico giovanilistico. Dove comme il faut si fa un gran parlare di Barack Obama (chi sarà il nostro Obama? dove troveremo il nostro Obama?).Si dimentica che il nuovo presidente americano ha sconfitto in campo aperto, al termine di una lunga e dura battaglia, Stato per Stato, elettore per elettore, due micidiali clan politici (Bush e Clinton) che hanno governato gli Stati Uniti negli ultimi venti anni. Lo ha fatto in splendida solitudine ché, in avvio, ha dovuto fare a meno anche dell´appoggio della macchina elettorale afroamericana di Al Sharpton e Jesse Jackson che lo guardavano con freddezza. Ce l´ha fatta non perché è su Facebook (anche), ma perché (innanzitutto) ha un´idea della natura della crisi degli Stati Uniti e un programma per affrontarla. È apparso autorevole, credibile, responsabile, capace di stringere forti legami sociali, di radicarsi nel Paese e tra la sua gente perché la sua intelligenza delle cose è maturata a contatto con la realtà in cui vive e si muove un popolo in carne e ossa e non nel mondo frammentato dell´immagine, dei consumi, delle mode, dello spettacolo dove abitano soltanto figurine di cartone.Se prendere atto delle metamorfosi non significa condividerle, si può dire - e non è una provocazione - che la declinazione della politica di Obama ha più a che fare con la giovane classe dirigente della Lega che non con i giovani leoni senza denti del Partito Democratico. Converrà allora che quei giovani si diano da fare. Riscoprano il conflitto. Comincino a pretendere regole certe per le primarie, come propone da tempo Tito Boeri. Pretendano il ritorno al voto di preferenza. Esigano che l´età di elettorato attivo e passivo coincida, come in Germania, Svezia, Spagna. Diano battaglia. Soltanto con un conflitto aperto di ideali, progetti, analisi, competenze, soltanto con un conflitto leale nella raccolta del consenso, quindi nella misura di un concreto radicamento sociale, si potrà coltivare la speranza di un nuovo riformismo, la convinzione di potercela fare a cambiare l´Italia, a fermarne il declino e la deriva autoritaria. Altra ambizione non può esserci e, se c´è, non è soltanto mediocre. È perdente e, peggio, noiosa come un´impotente lagna".
Giuseppe D'Avanzo

Irene Tinagli si allontana dal PD...o è il PD che è lontano da Irene Tinagli?

Caro Walter,ti scrivo perché ho deciso di dimettermi dal Coordinamento Nazionale del Partito Democratico. Una scelta non facile che nasce dall’esperienza di quest’ultimo anno e dai dubbi crescenti sulla capacità del PD di proporsi come forza riformista e innovativa, come aveva detto di voler fare un anno fa. Un obiettivo ambizioso al quale avevo aderito con entusiasmo e che ora faccio fatica a riconoscere in questo partito, in numerosi ambiti. Dalle posizioni ambigue su importanti temi etici e valoriali, alla gestione di processi politici locali e nazionali, ma soprattutto alle posizioni in quegli ambiti piu’ cruciali per la crescita del paese: istruzione, ricerca e innovazione. Era su questi temi che coltivavo le aspettative maggiori verso il PD. Ero stata molto delusa dalle politiche del Governo Prodi, ma speravo che con il PD si aprisse una stagione nuova, fatta di elaborazione di idee e proposte significative. Di fronte alle posizioni del PD su questi fronti non posso che essere sconcertata. Non ho visto nessuna proposta incisiva, se non “andare contro” la Gelmini. Peraltro tra tutti gli argomenti che si potevano scegliere per incalzare il ministro sono stati scelti i piu’ scontati e deboli. Il mantenimento dei maestri, le proteste contro i tagli, la retorica del precariato, tutte cose che perpetuano l’immagine della scuola come strumento occupazionale. E’ questa la linea nuova e riformista del PD? Cavalcare l’Onda non basta. Serve una proposta davvero nuova, che ribalti certe logiche di funzionamento anziche’ difenderle. Ma non ho visto niente di tutto questo.La mia delusione e’ tanto piu’ forte quando penso alla propaganda fatta un anno fa riguardo all’apertura a idee nuove, quando penso alle molte persone provenienti da ambiti professionali qualificati che si erano avvicinate al progetto del PD e che avrebbero potuto portare un contributo in termini di idee e innovazione. Che fine hanno fatto queste persone? Quali nuove modalita’ di coinvolgimento e ricambio ha creato il Partito? Io stessa, che ero stata contattata (cosi’ mi era stato detto) per le mie competenze “tecniche”, in un anno di vita del PD non sono stata consultata mai nemmeno per un parere. Questa emarginazione non ha certo offeso ne’ me ne’, credo, le altre persone gia’ molto impegnate fuori dalla politica. Mi chiedo pero’ come mai, un anno fa, ci era stata chiesta una collaborazione con tanto apparente entusiasmo quando evidentemente di questa collaborazione non c’era bisogno. Mi chiedo se era necessario fare tanto chiasso sul ricambio generazionale quando basta guardare chi sta ancora in cabina di regia per capire che, in fondo, non e’ cambiato niente.Inneggiare al cambiamento, all’idea di una societa’ e di una politica nuove serve a poco se manca il coraggio di intraprendere fino in fondo le azioni necessarie a realizzare queste idee. Sartre diceva che noi siamo quello che facciamo. Sono le nostre azioni che ci definiscono, stare a discutere su cio’ che ci piacerebbe essere serve a poco: la gente ci giudichera’ per quello che abbiamo fatto. E di quello porteremo la responsabilita’. Per quanto mi riguarda non voglio portare la responsabilita’ delle scelte che sta facendo questo partito che in larga parte non condivido e sulle quali non ho avuto e non ho possibilita’ di incidere in alcun modo. Per questo ho deciso di dimettermi.
Irene Tinagli

“Talenti da svendere”




«Caro Walter, ci credevo: invece...»
«Mai consultata»: si dimette l’economista arruolata dal Pd
«Nessuna sorpresa, è così da due anni» ci dice Irene Tinagli (nella foto), empolese, ricercatrice negli Usa, a Pittsburgh.

Irene Tinagli, 34 anni, sposata è nata a Empoli. Insegna alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh. Allieva di Richard Florida, è una grande esperta di politiche pubbliche per l’innovazione, la creatività e lo sviluppo economico. Lavora come consulente per il dipartimento “Affari economici e sociali” dell’Onu e per la Commissione europea. È autrice e co-autrice di pubblicazioni internazionali e italiane, come il libro “Understanding Knowledge Societies”, pubblicato nel 2005 dalle United Nations Publications.
Il suo ultimo lavoro, per Einaudi, è il libro “Talenti da svendere” (2008).

Il Tirreno
24 Novembre

GUIDO FIORINI
EMPOLI.
Molti amici le hanno detto: «ripensaci». Ma nessuno l’ha chiamata dai vertici del partito. L’avevano cercata a lungo per farla entrare nella direzione nazionale del Partito Democratico ma dopo le sue dimissioni pubbliche, con una lettera al “Riformista” tre giorni fa, neppure una telefonata: «Nessuna sorpresa, è così da due anni» ci dice Irene Tinagli, empolese, ricercatrice a Pittsburgh. «Nessuno - prosegue - mi ha mai cercato per chiedermi un consiglio su nessun argomento, per cui non mi aspettavo certo adesso una chiamata. E neppure tutto questo clamore per le mie dimissioni. Ma io non potevo restare a fare lo “specchietto per le allodole”. Ci credevo nel partito riformista di cui parlava Veltroni al Lingotto, volevo contribuire, ma non potendo fare niente mi sono chiamata fuori». Irene era entrata nella direzione del Pd per dare un contributo da esperta qual è di innovazione e sviluppo. Un ruolo che la stimolava, pur essendo spesso negli Usa per lavoro. Qualcuno la voleva anche in Parlamento, ma lei si era sempre rifiutata. Ora ha detto addio al Pd, con toni forti. «Chi mi ha chiesto di ripensarci mi ha detto “fai appello alla tua passione politica”. Ed è proprio per la mia passione politica che ho lasciato, per coerenza con le cose in cui credo. E in cui avevo creduto quando ho accettato». La giovane ricercatrice contesta le posizioni del Pd su scuola, pubblico impiego, temi etici. E non solo. «Hanno voluto mettere dentro persone nuove e continuano a cercare i voti vecchi. Su scuola e pubblico impiego non c’è stato niente di costruttivo, solo contrarietà su tutto, per difendere un bacino elettorale e inseguire i toni forti di qualcuno. All’inizio le mie dimissioni volevo restassero una cosa privata. Poi mi arrivavano centinaia di lettere, sms, note su “facebook”. E ho capito che il mio disagio lo sentono in tanti. Così ho deciso di dimettermi pubblicamente». Dimissioni che hanno fatto scalpore. Ma che non hanno spinto alcun dirigente del partito a chiamarla. «Se c’è stato tanto scalpore è perché là dentro nessuno ha mai preso posizioni di rottura. Tutti, in fondo, hanno qualcosa da perdere. Molti la pensano come me, ma tutti hanno una poltroncina, o aspirazioni per il futuro, rapporti da coltivare. Una mia amica parlamentare mi ha detto: «In 30 anni di politica non avevo mai visto dimissioni da una direzione nazionale»... «Ebbene - ribadisce Tinagli - io sono la prima. Se mi sono dimessa è perché volevo cambiare le cose, il modo di fare politica. Credevo in un partito nuovo e riformista. Non aspiravo ad altro. E dopo due anni mi sono resa conto di non poterlo fare, che ero solo un fiorellino all’occhiello e che i temi erano gli stessi di sempre. È stato anche un problema di onestà verso la gente che pensava che facessi chissà cosa: “Su quali temi lavori Irene per il partito?”, mi chiedevano per la strada. E io “su nulla”. Non potevo andare avanti così». Irene è delusa anche dalle posizioni del Pd su altri fronti. «Parlo di temi etici. Io non posso stare nello stesso partito di una come la Binetti, che ha dichiarato che gli omosessuali sono pedofili e malati mentali. Odio l’intolleranza. Se non ho mai votato a destra è perché ci sono personaggi come Calderoli che la manifestano ogni volta che parlano. Quindi non sarebbe coerente stare insieme a persone che sono altrettanto intolleranti. Eppure ero contenta che nascesse questo partito che metteva insieme l’anima riformista e socialista con quella cattolica. Ma speravo che si prendesse il meglio dalle due parti, non il peggio. Ho amici cattolici che hanno una grandissima apertura mentale. Con questi si sarebbe potuto lavorare insieme, per fare davvero qualcosa di nuovo. Invece...».

domenica 23 novembre 2008

Il principio della rana lessata



Immaginate un pentolone pieno d'acqua fredda nella quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l'acqua si riscalda piano piano. Presto diventa tiepida. La rana trova questo piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura continua a salire. Adesso l'acqua è calda. Un po' più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po' ma tuttavia non si spaventa. L'acqua ora è veramente calda. La rana comincia a trovare sgradevole ciò ma essa si è indebolita, allora sopporta e non fa nulla. La temperatura continua a salire fino al momento in cui la rana finisce semplicemente per cuocere e morire. Se la stessa rana fosse stata direttamente immersa nell'acqua a 50°, immediatamente avrebbe dato il giusto colpo di zampa che l'avrebbe presto proiettata fuori dal pentolone. Questa esperienza mostra che, quando un cambiamento si effettua in maniera sufficientemente lenta, sfugge alla coscienza e non suscita, per la maggior parte del tempo, nessuna reazione, nessuna opposizione, nessuna rivolta. Se guardiamo ciò che succede nella nostra società da alcuni decenni, noi subiamo una lenta deriva alla quale ci abituiamo. Un sacco di cose che ci avrebbero fatto orrore 20, 30 o 40 anni fa, a poco a poco sono diventate banali, edulcorate, e ci disturbano leggermente, oggi, o lasciano decisamente indifferenti la gran parte delle persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all'integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente ed inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute. I foschi presagi annunciati per il futuro, anziché suscitare delle reazioni e delle misure preventive, non fanno che preparare psicologicamente il popolo ad accettare le condizioni di vita decadenti, perfino drammatiche. Il permanente ingozzamento di informazioni da parte dei media satura i cervelli che non riescono più a discernere. Quando ho annunciato queste cose per la prima volta era per domani. Adesso, è per oggi. Allora se non siete come la rana, già mezzo cotti, date il colpo di zampa salutare prima che sia troppo tardi.

Olivier Clerc
Siamo già mezzi cotti o no?
Dall’allegoria della Caverna di Platone a Matrix, passando per le favole di La Fontaine, il linguaggio simbolico è un mezzo privilegiato per indurre alla riflessione e trasmettere delle idee. Olivier Clerc, scrittore e filosofo, in questo suo breve racconto, attraverso la metafora, mette in evidenza le funeste conseguenze della non coscienza del cambiamento, che infetta la nostra salute, le nostre relazioni, l’evoluzione sociale e l’ambiente. Un condensato di vita e di saggezza che ciascuno potrà piantare nel proprio giardino per goderne i frutti.


sabato 22 novembre 2008

Partito nuovo Il futuro è a rischio

Corriere della Sera
21 novembre 2008
Paolo Franchi

Quando, un paio di anni fa, la nave del Pd prese finalmente il largo, si disse che stava per nascere non un nuovo partito, ma un partito nuovo. Non voleva essere soltanto un gioco di parole. Di nuovi partiti, dopo il collasso della Prima Repubblica, ne erano nati e morti un'infinità: nessuno avrebbe potuto entusiasmarsi all'idea di metterne su un altro, seppure più grosso, nella speranza che le debolezze di Ds e Margherita, sommate, dessero luogo a una forza. Porre mano alla costruzione del partito nuovo del centrosinistra, invece, rivelava, o avrebbe dovuto rivelare, ben altre ambizioni. Magari di natura diversa. Quelli che avevano una qualche dimestichezza con il Pci potevano cogliervi, volendo, anche un richiamo al miracolo politico di Togliatti au retour de Moscou (in fondo l'unica rifondazione che il comunismo italiano, trasformandosi da setta di rivoluzionari di professione in partito di massa fedele all'Urss, certo, ma anche radicato in tutte le pieghe della società, abbia mai conosciuto), e insomma una trasfigurazione, e al tempo stesso un inveramento, della loro storia: veniamo da lontano, e andiamo lontano.

Ma di Togliatti in giro non ce n'erano, e nel costituendo Pd potevano al massimo inverarsi e trasfigurarsi, come in effetti è accaduto, il Pds e i Ds, che del Pci avevano ereditato quasi tutti i vizi ma quasi nessuna virtù. Quelli che con questa storia non avevano legami, o li avevano più nettamente recisi, immaginavano qualcosa di diverso: un partito come in Italia non c'era mai stato, la casa in cui tutti i riformismi e tutti i riformisti avrebbero potuto vivere da liberi e da eguali, una grande forza post ideologica a vocazione maggioritaria in grado di candidarsi a governare in una democrazia bipolare, e anzi tendenzialmente bipartitica. Ma per gettare le basi di un partito così sarebbe servito un big bang, o almeno un vigoroso rimescolamento delle carte: non se ne è vista traccia, come per primi hanno dovuto constatare (a modo loro, e comunque in solitudine) Marco Pannella e i radicali.

I risultati si vedono. Nessuno, nemmeno quelli che sul nascente Pd erano stati critici e comunque dubbiosi, immaginava che, in un così breve volgere di tempo, la realtà si sarebbe rivelata peggiore delle previsioni più pessimistiche. Sette mesi dopo la sconfitta elettorale, fatica oltremisura a prendere corpo non solo la poesia del partito nuovo, ma anche la prosa del nuovo partito. Magari perché un partito, vecchio nuovo o seminuovo che sia, è tante cose, nobili e meno nobili. Ma prima di tutto è una comunità di valori e, perché no di interessi, un «grumo di vissuto», direbbe Pietro Ingrao, che non sta insieme se non c'è un mutuo riconoscimento di buona fede e di lealtà. Una comunità in cui si discute, ci si divide e, nel caso, ci si accapiglia, ma avendo sempre chiaro che c'è un limite oltre il quale l'unica prospettiva diventa la scissione o, peggio ancora, l'implosione: e cioè, parafrasando Marx, la comune rovina delle parti in lotta. È tutto da stabilire se il Pd abbia queste caratteristiche. Anzi, a dire il vero sembrerebbe proprio di no. E sembrerebbe pure che quel limite, se non è già stato superato, sia sul punto di esserlo. Saremmo felici di sbagliare.

Ma già ora non ci si chiede tanto quale sarà il futuro del Partito democratico, quanto piuttosto se un futuro il Partito democratico lo abbia, o se invece siamo già all'inizio di una fine annunciata. Come se al Pd stesse capitando qualcosa di simile a quello che capitò, quaranta e passa anni fa, al Partito socialista unificato, con la differenza che allora, nel momento della separazione, fu comunque possibile ai contendenti, peggio che ammaccati, rientrare nelle vecchie case, il Psi e il Psdi, mentre stavolta non ci sarebbero tetti, seppure malcerti, sotto cui trovare riparo nella bufera. O stesse succedendo qualcosa di simile a quello che potrebbe succedere ai socialisti francesi, paralizzati dai contrasti insanabili, di potere e di linea, tra prime donne che non riescono a prevalere l'una sull'altra, ma a bloccarsi reciprocamente sì. Esagerazioni, forzature, indebite drammatizzazioni? Può darsi. Ma a chi trovasse ingeneroso porre la questione in questi termini, basterebbe suggerire di scorrere le cronache di questi giorni, con il loro ampio corredo di reciproci sospetti sempre più velenosi e di reciproche accuse (dall'insussistenza politica all'intelligenza con il nemico) sempre più infamanti.

Ci si può esercitare nel tentativo di stabilire chi porti le responsabilità maggiori. Molto probabilmente, con tutto quello, e non è davvero poco, che gli si può rimproverare, non è il segretario. Ma non è questo il punto. Il punto è se il tutto il Pd è in grado di provarsi a stabilire subito, non domani o dopodomani, come e perché si è andato a cacciare in una situazione come questa, che non si lascia spiegare soltanto con una batosta elettorale prevedibile ma mai davvero indagata, e che la gente del Circo Massimo non merita; e se è ancora possibile uscirne, e per quali vie. Il punto è, in altri termini, se stiamo parlando di un organismo malato sì, ma vitale. In caso contrario, sarebbero guai seri. Per il Pd, si capisce. Ma anche per la democrazia italiana. Che, come tutte le democrazie, di un'opposizione degna di questo nome ha un bisogno vitale. Specie in tempi calamitosi come quelli che si avvicinano.

Entro il 15 dicembre le firme Il voto sarà il 1º febbraio

IL TIRRENO
SABATO, 22 NOVEMBRE 2008
La corsa alle primarie per la scelta dei candidati alla carica di sindaco dei 211 Comuni (di cui 33 sopra i 15mila abitanti) in cui si vota a primavera si concluderà entro il 15 dicembre.
Ecco un breve vademecum.
Presentazione candidature.
Entro il 15 ottobre i sindaci e presidenti di provincia uscenti, rieleggibili a norma di legge, hanno comunicato in forma scritta al Comitato organizzatore del Pd la disponibilità a ricandidarsi. Le candidature alternative di cittadini che si dichiarano elettori del Pd possono essere presentate con il quorum minimo di sottoscrizione del regolamento quadro nazionale: cioè dal trenta per cento dei componenti della Assemblea del relativo livello territoriale.
Raccolta firme. La data di raccolta delle firme cambia da comune a comune. Essa si deve svolgere in 3 settimane. Per cui chi ha iniziato il 15 novembre dovrà terminare la raccolta entro il 6 dicembre. In altri Comuni la chiusura slitta di qualche giorno, proprio perché l’inizio è stato posticipato. Quando si vota. Le primarie si svolgono a tutti i livelli domenica 1 febbraio. I seggi saranno aperti dalle 8 alle 21. Chi vince sarà il candidato a sindaco o a presidente della provincia.
Chi ha diritto. Hanno diritto di partecipare alle primarie tutte le persone che, al momento del voto, siano in possesso dei seguenti requisiti: residenza nel comune dove si vota, sedici anni di età e dichiarazione di adesione alla proposta del Pd. Gli elettori che partecipano alle primarie devono versare, al momento del voto, una quota di almeno un euro. (m.l.)

mercoledì 12 novembre 2008

Una missione per la politica

La Repubblica
Tito Boeri
11/11/08
Sono in molti in Italia ad avere issato lo spinnaker sperando di gonfiarlo col ponente teso che spira dopo la vittoria di Barack Obama. Ma non basta usare vele con nomi anglosassoni e agitare le bandiere di "chi può" per tornare a essere politicamente competitivi. Il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha di fronte a sé un'agenda obbligata e margini di manovra molto ristretti. Ha vinto con un programma meno radicale di quello di Hillary Clinton. Né si intravedono sin qui quei grandi cambiamenti nelle coalizioni di governo, i cosiddetti "political realignments", che preludono alle grandi svolte nella politica americana. I ripetuti messaggi di continuità con l'amministrazione Bush lanciati nella prima conferenza stampa da presidente degli Stati Uniti in pectore sono indicativi. Investire sul futuro di Obama è perciò un'impresa ad alto rischio. Molto meglio investire sul passato di Obama, sulla sua incredibile campagna elettorale, fatta di primarie vere, dall'esito spesso imprevedibile perché molto più partecipate che in passato, e di internet, come strumento di comunicazione e di finanziamento. Abbiamo molto da imparare dal candidato Obama nel migliorare i processi di selezione della classe politica all'interno del nostro paese. Il suo "yes, we can" è soprattutto un riconoscimento alla democrazia di internet, alla sua capacità di moltiplicare il potere delle idee, al di là, se non contro, i grandi mezzi di comunicazione. Ma internet non sarebbe bastato se non ci fossero state regole che permettono una vera competizione all'interno dei partiti, aperta anche a chi sta fuori dall'establishment.
Chi vuole raccogliere la bandiera di Obama deve accettare queste regole, deve permettere una vera competizione nel mercato del lavoro dei politici. Ne abbiamo disperato bisogno. I problemi del nostro paese sono in gran parte problemi di inadeguatezza della nostra classe dirigente, a partire dalla classe politica. Nel passaggio dalla Prima alla seconda Repubblica il processo di selezione della nostra classe politica è solo peggiorato. Una volta esistevano i partiti di massa che svolgevano al loro interno la selezione. Contavano le decisioni dei vertici, ma anche i militanti potevano dire la loro. Difficile essere candidato senza il gradimento della base, anche in un collegio elettorale sicuro. Poi i partiti di massa si sono sgonfiati, il rapporto fra militanti ed elettori è crollato, e sono rimasti quasi solo i capi partito a selezionare la classe politica. Il loro potere è sopravvissuto alla crisi dei partiti, in alcuni casi si è addirittura rafforzato grazie alla crisi dei partiti, come dimostrano i tanti one-man party che sono fioriti negli ultimi anni. Cosa ha dato a questi comandanti senza esercito tanto potere? Sicuramente il finanziamento pubblico dei partiti che ha messo ingenti risorse a disposizione delle segreterie. Ma anche regole elettorali, come le liste bloccate, che hanno reso autocratica la selezione dei politici. Come è stato usato tutto questo potere dai segretari dei partiti? Male, molto male, almeno dal nostro punto di vista. Abbiamo avuto parlamentari sempre più vecchi e sempre meno istruiti, come documentano i dati raccolti da un gruppo di ricercatori coordinati da Antonio Merlo dell'Università della Pennsylvania (www. frdb. org). La quota femminile è rimasta più o meno la stessa. Sono, invece, aumentate le cooptazioni all'interno della classe dirigente: la quota di manager tra i nuovi parlamentari, ad esempio, è costantemente cresciuta fino a toccare il record nelle ultime elezioni, con un manager ogni quattro nuovi eletti. La candidatura di qualcuno dell'establishment rientra spesso in uno scambio di favori. Meglio se il candidato è inesperto e non intende fare carriera in politica. Anche a costo di sguarnire le commissioni parlamentari, è bene tarpare le ali a potenziali concorrenti. Fatto sta che in Italia c'è una fortissima rotazione nei parlamentari: un deputato su tre rimane in carica per un solo mandato, contro, ad esempio, uno su cinque negli Stati Uniti. E' un bene? Niente affatto. La politica è una professione impegnativa, si impara facendo. Oggi l'Italia è dominata da un gruppo ristretto di politici a vita che danno l'illusione del ricambio permettendo a innocui "volti nuovi" di entrare a Montecitorio o a Palazzo Madama. Non si investe in nuovi parlamentari. Né i nuovi parlamentari investono in una carriera tra gli scranni: semmai il Parlamento diventa un parcheggio, una pausa in cui coltivare reti di relazioni utili per il dopo. Il tutto avviene, ovviamente, a carico dei contribuenti. Ed è un carico elevato dato che gli stipendi dei parlamentari sono aumentati a tassi da boom economico (+4% l'anno) dal 1980 ad oggi, mentre il Paese entrava progressivamente in una lunga fase di stagnazione. La nostra ben pagata pattuglia al Parlamento Europeo è storicamente quella coi tassi di rotazione più alti dell'Unione: addirittura un parlamentare su tre lascia prima della fine del suo mandato. E' un mestiere complicato quello del parlamentare europeo. Quando si comincia a imparare qualcosa, si sono già fatte le valige, meglio i bauli, del rimpatrio. I cappellini pro-Barack sono "one size fits most", una taglia va bene per molti, ma non per tutti. Chi vuole metterseli in testa deve accettare di cambiare le regole di selezione della classe politica. Basta col finanziamento pubblico dei partiti. Basta con le liste bloccate. Meno parlamentari e, quei pochi, scelti con cura dalla base dei partiti nell'ambito di primarie vere, il cui esito non è precostituito dalle segreterie. C'è qualcuno lassù disposto a raccogliere questa sfida?